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giovedì 19 gennaio 2017

i magnifici 7




Da qualche tempo l’inondazione di film sentimentali, horror e di  animazione è intervallata dai rifacimenti di vecchi film di successo, come Ben-Hur, Conan, RoboCop e c’è da aspettarsi il ritorno dell’ennesimo King Kong e Godzilla, di Uccelli e, ahimè, di My Fair Lady.
Tempi di remake, come se il cinema non fosse più capace di ideare nuove trame, nuovi eroi, nuovi orizzonti di pensiero e di azione cinematografica e con l’aggravante che i rifacimenti di rado sono all’altezza dell’originale.
Con qualche eccezione.
Spicca infatti fra i tanti, il remake 2016 del famosissimo film del 1960 di John Sturges “I MAGNIFICI SETTE”, diretto dal regista nero USA Antoine Fuqua che invece, nel riproporre la nota vicenda dei sette pistoleri assunti da miti contadini per combattere chi vuole depredarli di ogni cosa, riesce ad aggiungere originali angolature della vicenda che rendono il film piacevole e stimolante: con questo film, come neanche negli anni ’70 era accaduto, entra in un western la lotta di classe e la critica anticapitalista. 
Spicca il film perché, a differenza del precedente del 1960 e del film “I 7 Samurai” di Kurosawa, capostipite della trasposizione western, questo ha una esplicita impostazione classista e anticapitalista che nella prima stesura della sceneggiatura del film originale che fu di Walter Bernstein - intellettuale democratico perseguitato negli anni ’50 per quelle presunte attività antiamericane che gli USA vedevano in ogni pensiero libero e in ogni critica al sistema capitalistico – era rimasta molto nel vago.
Fin dall’inizio il film indica il capitalismo come il vero nemico dei contadini che vogliono lavorare la terra e vivere sereni con il frutto della propria fatica, tanto che il super-cattivo che vuole impossessarsi delle loro terre per cercarvi giacimenti d’oro, irrompe nella chiesa, prima di darle fuoco, minaccia i coloni che non vogliono lasciargli tutti i loro averi dichiarando, armi in pugno: “Io vengo qui per l’oro. L’oro. Questo paese ha identificato la democrazia con il capitalismo e il capitalismo con Dio. Perciò voi ostacolando me, non ostacolate solo il progresso e il capitale, ma ostacolate DIO !!  
A quella impostazione che rimase vaga nel 1960, limitata ad un episodio iniziale di forte condanna antirazzista, il nuovo film aggiunge tesi che nel primo film erano del tutto implicite se non assenti. A insidiare la sicurezza del villaggio contadino sia nei 7 Samurai di Kurosawa sia nei Magnifici 7 di Sturges era una banda di desperados, delinquenti comuni che abitualmente facevano razzie nel villaggio; in questo nuovo film di Fuqua il “cattivo” invece è un “capitalista”, un padrone elegante giacca-e-cravatta, uno che si impossessa di terre, le circonda di recinti e guardie armate e le sfrutta per la propria bramosia, uno senza scrupoli che identifica la propria rapacità con il destino del Paese e con la volontà di Dio. Un capitalista.
Ma c’è dell’altro degno di nota: si tratta di un regista nero che nella storia mette a capo del manipolo di “portatori di giustizia” proprio un nero il quale recluta via via come combattenti: un messicano, un sudcoreano e un nativo americano (un Apache? un Sioux? insomma uno di quelli a cui i WASP hanno rubato la terra), per andare a salvare un villaggio di bianchi dalla rapacità di un bianco e dei suoi sgherri. Gran parte dei bianchi del villaggio, poi, non intende combattere per difendere la propria terra e tocca ai nostri 7 morire per restituire la terra a quei bianchi che se ne erano impossessati e che ora erano nel mirino di un bianco più rapace di loro. Ma c’è ancora un altro elemento sorprendente: a capo dei pochi contadini che si mettono a combattere per la riscossa c’è una donna, figura del tutto assente nei due film precedenti e quindi il vessillo della riscossa è affidato alle minoranze discriminate nella realtà, minoranze razziali, etniche e di genere.
Ma c’è dell’altro ancora, a ben guardare: dopo che una parte della città è fuggita per non dover combattere, quelli che sono invece rimasti e si armano per fronteggiare l’imminente attacco degli scherani del capitalista, si adunano e marciano verso il saloon dove i 7 li attendono. La scena dura pochi attimi e va colta al volo, ma è costruita alla perfezione: è la copia – dinamica - della marcia dei lavoratori nel famoso quadro “Il quarto stato” di Giuseppe Pellizza da Volpedo. Basta confrontare il fermo immagine qui accanto con il dipinto per osservare i dettagli: il trio che precede il gruppo, la donna, il gilet e il cappello dell’uomo centrale, l’uomo massiccio con la barba a destra, sono i dettagli, il colpo d’occhio d’insieme è istantaneo ma netto.
Il Western si conferma un genere universale nel quale possono confluire – come nella tragedia greca  - gli elementi fondamentali del pensiero umano e le vicende cardine della sua storia.
Conforta scoprire che sensibili alle sorti dei lavoratori di ogni tempo vi siano registi come Fuqua e come Ken Loach, quando tocca rilevare che questa sensibilità scarseggia invece in ambienti che per vocazione dovrebbero nutrirne per ontologica costituzione.
Segno dei tempi.

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