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martedì 4 aprile 2017

la questua


Siamo inondati da una miriade di questue quotidiane, postali, televisive, in rete: un proliferare incredibile di vaglia, IBAN, conti postali e numeri telefonici per donazioni che ha davvero del grottesco.
Un tempo la questua era affidata al sacrestano che durante le funzioni allungava un sacchettino di stoffa nera appeso al fondo di una lunga canna che egli infilava tra i banchi per raggiungere anche la manina più corta fra i fedeli compagni di seduta; la pertica col sacchetto aveva sostituito il piattino per un maggior riserbo sulle dimensioni dell’obolo elargito. Grazie al servizio postale, la questua giungeva anche nelle case: nella buca regolarmente ci si ritrovava il Messaggero di S. Antonio, il Giornalino di Don Bosco, le cartoline di Pasqua disegnate coi piedi da pittori senza mani (sic !) e fra le pagine sempre umide di lacrimazzi pietosi spuntava puntuale l’incorporato bollettino di conto corrente per l’offerta al clero che in cambio avrebbe distribuito parole di conforto ai poveri e ai derelitti e perdoni, purghe e indulgenze miste ai donanti per le porcherie eventualmente commesse fra un versamento e l’altro: una sorta di vaccino a somministrazione periodica che doveva riscuotere un certo successo, vista la copiosità degli invii, che per quanto godessero (inspiegabilmente) di tariffe agevolate, comportavano certo dei costi, fra stampe a colori, redazioni e impostazioni.
Oggi la grande colletta si avvale anche delle più moderne tecnologie che consentono contatti pervasivi a minor costo, mentre la tecnica di aggancio dell’attenzione rimane quella stessa – antichissima - dei più scaltri accattoni professionali che organizzano squadre di mendicanti scelti fra bambini e deformi per più impietosire i passanti all’uscita dal tempio, la chiesa o il supermercato (che pur tempio è, di una divinità più smart); scorrono infatti sui monitor immagini di bimbi malati, macilenti e denutriti, sbattuti in faccia alla gente che si raccoglie per il pranzo davanti al desk-TV, atte a suscitare pietà e senso di colpa negli spettatori commensali e a indurre infine la digitazione sul telefonino del numeretto donatore. Così la coscienza è placata, il pranzo riesce meglio, mentre nulla più si sa dei percorsi compiuti dalla somma donata.
Ma quello che più di ogni altra cosa stupisce e insospettisce è il moltiplicarsi continuo dei soggetti che si dedicano a mostrarci con suggestiva efficacia come soffrono i poveri, i malati, i disabili, i terremotati, gli alluvionati, specie i bambini, gli sventurati di ogni categoria possibile e che dopo averci ben commossi, ci invitano a metter mano alla tasca per mandare a loro dei soldi che – promettono solennemente – useranno esclusivamente per far star bene, sfamare, curare, guarire, accasare, a seconda della disgrazia, gli sventurati bisognevoli testé rappresentatici. Sembra, in certi periodi dell’anno, che ci siano più organizzazioni di adozione a distanza che marche di detersivo per i piatti. E qui sorge qualche domanda.
Se si costituisce un Soggetto Benefico che si prefigge di raccogliere denaro in favore, diciamo, dei terremotati dell’Abissinia, si capisce che ci siano molte persone che, colpite dalla sofferenza altrui, decidano di donare parte del proprio denaro a questo Soggetto Benefico nell’intenzione di aiutare quei bisognosi. Bene. Si capisce meno quando questo desiderio di far del bene, anziché manifestarsi con una donazione al preesistente Soggetto Benefico, da parte di certuni si manifesti nel creare, a propria volta, un altro organismo parimenti dedito alla raccolta dei fondi in favore di quegli stessi terremotati dell’Abissinia. Di per se stessa questa azione comporta un forte spreco di quel denaro così faticosamente raccolto a detrimento del bene donativo finale, in quanto il raccogliere in sé, la pubblicità, la Presidenza, la Segreteria, il telefono, l’ufficio, il fax, il PC, la stampante, la manovalanza, il conto bancario ecc. ecc. hanno dei costi che, con il duplicarsi dei Soggetti Benefici, inevitabilmente si duplicano e si moltiplicano, a detrimento dei bisognosi.
Possibile mai che la portata di questo spreco possa sfuggire a menti così altruiste e così profondamente dedite al bene altrui?
A Natale, quando le questue si intensificano in occasione del massiccio annuale assalto alle tredicesime, ho aderito a una colletta che in cambio di una donazione minimale di € 10 in favore di uno dei tanti enti di ricerca su una malattia, offriva un pacco di cioccolatini. Buoni. Da quel giorno hanno preso a mandarmi per posta fior di ringraziamenti, depliant, pubblicazioni, cartoncini con vaglia (ovviamente) che davvero non se ne può più. Ma allora: quanto spendono in cartoncini, stampe, spedizioni? Dopo aver pagato i cioccolatini (o le arance o i carciofini o le azalee) che mica il cioccolataio glieli dava gratis, e dopo il “fastidio” dei dirigenti e la tipografia e la stamperia e il grafico designer, quanto rimane per la beneficenza o per la ricerca? Quanto consuma la macchina organizzativa di chi ha deciso di farlo per mestiere il questuante? Quanto guadagna il fornitore di azalee? Senza la campagna di beneficenza, quanti cioccolatini sarebbe invece riuscito a vendere il cioccolataro? Molti di meno, ovviamente.

Nella assoluta intrasparenza sulla reale distribuzione dei fondi, la colletta, la (promessa) intermediazione della beneficenza,  si conferma uno dei più grossi e oscuri business dei giorni nostri.

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